Lyrics Lamento Per Aureliano - Yo Yo Mundi
(Testo
di
Fabrizio
Meni,
musiche
di
Paolo
E.
Archetti
Maestri)
Ne
parlo
perché
io
li
ho
visti.
Avevo
tredici
anni
quel
15
gennaio
1945.
Poco
più
di
un
bambino,
ma
abbastanza
grande
per
capire
che
quella
guerra
non
era
un
gioco.
La
guerra!
La
guerra,
per
chi
come
me
c'era
cresciuto
dentro,
era
solo
un
modo
di
vivere.
Gli
allarmi,
il
coprifuoco,
le
code
per
il
pane
e
la
margarina
razionati
erano
come
dei
piccoli
riti
così
come
indovinare
da
lontano
il
rumore
di
Pippo
il
ricognitore
e
poi
contare,
contare,
contare
in
trepida
attesa
fino
all'arrivo
dei
bombardieri.
Correre
nei
rifugi
era
un
po'
come
giocare
a
nascondino
e
le
macerie
delle
case
erano
il
teatro
di
avventure
da
supereroe.
Per
mio
padre,
lo
so
bene,
era
tutto
diverso.
Lui
si
spaccava
la
schiena
a
lavorare
in
miniera
e
anche
in
ferrovia.
C'era
questo
sorvegliante
in
camicia
nera
che
lo
squadrava
ogni
minuto,
mio
padre,
e
mio
padre
lì
a
scaricare
i
sacchi
di
cemento
e
carbone
dai
treni
della
Piccola
Velocità.
Quando
si
parlava
del
Duce
o
del
fascismo
lo
sentivo
bestemmiare.
A
bassa
voce
bestemmiava,
ma
io
lo
sentivo
lo
stesso.
Io
del
fascismo
non
è
che
ne
sapessi
granché,
e
parole
come
Albania,
Africa
orientale,
Macedonia
erano
piuttosto
marche
di
sigarette
da
fumare
per
sentirsi
più
grandi.
Quello
che
sapevo
è
che
ogni
tanto
c'erano
questi
pacchi
dono
per
le
famiglie
numerose
e
il
sabato
fascista
con
la
divisa
da
Balilla
a
me
non
dispiaceva,
era
sempre
meglio
che
stare
in
classe
con
il
maestro
che
puzzava
di
sigaro
e
voleva
farmi
imparare
l'italiano.
A
casa
mia
quest'italiano
nessuno
lo
parlava
mai.
Ecco
il
fascismo
che
conoscevo
io,
niente
più
di
questo.
Io
l'Impero
neanche
sapevo
cos'era,
ma
la
fame
sì,
quella
la
conoscevo
bene.
E
la
sapevo
riconoscere
nei
volti
della
gente,
volti
scolpiti
da
una
stessa
mano,
con
lo
stesso
sguardo
le
stesse
speranze:
che
la
guerra
finisse,
che
tutto
finisse,
e
ci
fosse
pane
tutti
i
giorni,
altro
che
adunate
fasciste
e
cappelli
da
Balilla.
Io
Tom
lo
conoscevo
bene.
Per
tutti
noi,
ragazzi
di
Borgo
Ala,
era
un
po'
come
un
fratello
maggiore.
Faceva
il
panettiere
e
anche
lui
aveva
il
nostro
stesso
sguardo
scavato
dalla
fame
e
quello
stesso
carattere,
duro,
tagliato
con
l'accetta
che
può
nascere
soltanto
qui,
in
questa
scuola
di
miseria,
fatta
di
giorni
e
giorni
a
lavorare
duro
per
tirare
a
campare.
Un
giorno,
poi,
l'hanno
chiamato
ed
è
dovuto
partire
per
il
fronte.
Allora
il
pane
ha
smesso
di
farlo
e
si
è
ritrovato
con
un
fucile
in
mano
e
una
divisa
che
si
confondeva
alla
pelle.
E'
stato
in
quel
momento
che
ho
iniziato
a
capire
che
da
qualche
parte
qualcosa
non
andava,
la
guerra,
i
bombardamenti,
quei
ragazzi
poco
più
grandi
di
me
che
partivano
per
chissà
dove
La
notte
accompagnavo
mio
padre
a
far
legna,
usavamo
la
dinamite
che
rubava
in
miniera.
Faceva
freddo
e
mio
padre
bestemmiava
sempre
più
ad
alta
voce,
e
quelle
bestemmie
di
mio
padre
io
cominciavo
a
capirle.
Poi
alla
fine
del
'43
Tom
riuscì
a
tornare
dal
fronte.
E
raccontò,
raccontò
che
la
guerra
noi
la
facevamo
ad
altri
come
noi,
a
gente
che
aveva
il
nostro
stesso
sguardo
da
fame,
giovani
francesi
che
coltivavano
la
vigna
come
noi
e
facevano
il
pane
come
noi.
E
c'era
davvero
qualcosa
che
non
andava
in
questa
guerra.
Raccontò
dei
Tedeschi
che
arrestavano
gli
ebrei
e
li
ammassavano
a
Borgo
San
Dalmazzo
per
poi
spedirli
chissà
dove.
Ci
raccontò
che
era
riuscito
a
scappare
unendosi
ai
partigiani
di
Val
Susa
e
lì
tra
le
montagne
aveva
visto
l'intero
paese
di
Boves
bruciare
e
che
erano
stati
i
Tedeschi
a
farlo
bruciare.
E
se
non
fosse
stato
che
era
Tom
a
raccontarle
quelle
storie,
non
ci
avremmo
creduto
mai.
Perché
in
fondo
per
noi
la
guerra
non
era
altro
che
giovinezza
in
marcia
e
la
strada
diritta
come
una
spada
e
l'avvenire
della
patria
e
nomi
di
giovani
eroi
da
imparare
a
memoria.
Poi
Tom
se
ne
andò.
Ci
guardò
e
se
ne
andò.
Me
ne
vado
a
combattere
- disse
- me
ne
vado
a
combattere
per
la
libertà.
Non
lo
vidi
più
Tom,
ma
il
suo
nome
sì,
il
suo
nome
lo
sentivo
ovunque.
Tutti
parlavano
di
lui,
dei
suoi
partigiani,
delle
loro
gesta
sulle
colline,
di
come
combattevano
e
io
me
li
immaginavo,
erano
i
miei
eroi:
i
partigiani
delle
Banda
Tom.
E
c'era
chi
Tom
lo
chiamava
il
bandito
rosso
o
Tom
l'imprendibile.
Poi
ricordo
il
freddo
di
quel
gennaio
del
1945,
ricordo
la
neve.
E
ricordo
cosa
raccontavano
di
quell'ultima
impresa.
Si
diceva
che
la
madre
di
Tom
era
stata
sbattuta
in
carcere,
si
diceva
che
Tom
aveva
provato
a
liberarla,
ma
non
c'era
riuscito
e
allora
si
era
preso
i
cavalli
della
milizia
fascista,
li
aveva
presi
e
portati
con
sé,
su
per
le
colline,
lo
avevano
seguito
e
braccato.
I
fascisti
avevano
seguito
le
tracce
sulla
neve
e
in
una
cascina
ai
piedi
di
Casorzo
avevano
preso
uno
che
stava
di
vedetta
e
l'avevano
riempito
di
botte
finché
questo
non
aveva
parlato,
rivelando
dov'è
si
nascondevano
Tom
e
gli
altri
della
banda.
Li
presero
uno
ad
uno,
portandoli
via
durante
la
notte.
Li
avevano
legati
con
il
fil
di
ferro.
I
polsi
sanguinavano
e
gli
occhi
erano
pesti,
ma
i
loro
sguardi
fieri.
E
io
me
li
ricordo
bene
perché
io
li
ho
visti.
Li
avevano
massacrati
di
botte
e
coperti
di
insulti
e
li
avevano
costretti
ad
un'assurda
processione
per
le
vie
di
Casale
con
un
cartello
appeso
al
collo
con
scritto
ecco
i
leoni
di
Tom
.
E
ancora
a
schiaffeggiarli,
a
menarli,
a
sputargli
addosso,
davanti
a
tutti.
E
loro
in
silenzio,
i
volti
privi
di
odio
e
trionfanti
e
liberi.
E
allora
ho
imprecato
anch'io,
come
mio
padre,
per
la
prima
volta
nella
mia
vita:
davanti
a
quello
scempio,
contro
il
duce
e
gli
altri
piccoli
duce
della
mia
città,
contro
quei
fascisti
che
avevano
fatto
fucilare
i
ragazzi
di
Tom
senza
neanche
un
prete
che
potesse
stargli
accanto.
Li
avevano
fatti
fucilare
costringendo
altri
ragazzi
come
loro
a
sparare.
Avevano
lasciato
i
corpi
dei
ragazzi
di
Tom
per
due
giorni
e
due
notti
lì
nel
fango
e
nella
neve.
Ricordo
le
casse
da
morto
fatte
in
fretta
e
ricordo
gli
uomini
che
dovevano
seppellirli,
ricordo
che
avevano
spezzato
i
cadaveri
congelati
con
il
picco
e
il
badile
per
farceli
entrare
in
tutta
fretta
in
quelle
casse.
E
ricordo
che
i
fascisti
andavano
sulle
tombe
ad
oltraggiarli,
i
ragazzi
di
Tom,
e
sparavano
sulle
croci
o
strappavano
via
i
fiori
rossi
portati
dalle
madri.
Da
quel
momento
il
mio
unico
desiderio
era
di
vederli
morti
tutti,
i
fascisti.
Avevo
tredici
anni
quel
15
gennaio
1945,
ma
ero
già
grande
abbastanza
per
capire
quanto
fosse
assurda
quella
guerra
che
aveva
portato
via
Tom,
il
mio
fratello
maggiore.
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